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venerdì 14 ottobre 2016

L'aggio di Equitalia è illegittimo


L'aggio di Equitalia è illegittimo


La CTP di Treviso spiega che l'aggio non è dovuto, sebbene il contribuente debba versare i tributi all'esattore

La normativa statale relativa all'aggio esattoriale è in contrasto con l'art. 107 del T.F.U.E. che vieta gli aiuti di Stato e, pertanto, non è dovuto anche se il contribuente deve versare i sottostanti tributi.

Lo ha disposto la Commissione Tributaria Provinciale di Treviso nella sentenza n. 325/1/2016 in accoglimento parziale del ricorso proposto da una ditta che aveva impugnato l'intimazione di pagamento ricevuta da Equitalia e riferita ad Iva, Ires, Irap, ritenute, addizionali per diversi anni.
La parte eccepisce, tra l'altro che l'intimazione di pagamento sia illegittima nonché eccessiva e sproporzionata la pretesa relativa ai compensi di riscossione (l'aggio) e interessi moratori. L'aggio, sostiene parte ricorrente sarebbe eccessivo rispetto al costo effettivo del servizio reso dal concessionario e, inoltre, vi sarebbe un'assenza di connessione tra questo e la capacità contributiva.

La CTP, pur respingendo i motivi di ricorso del contribuente, in quanto le imposte erano effettivamente dovute nella misura individuata dall'ufficio, ritiene che l'aggio non debba essere conteggiato. La Commissione rammenta che quest'ultimo costituisce il compenso spettante al concessionario-esattore per l'attività svolta su incarico e mandato dell'ente impositore. Sotto la voce compensi di riscossione sono indicate le richieste avanzate dall'agente della riscossione quale aggio.
Trattasi di compensi che non trovano alcuna ragione d'essere e appaiono pretesi in violazione dei principi costituzionali in materia gravando sul contribuente senza una giustificazione e senza un collegamento all'attività effettivamente svolta, almeno nel caso di specie. Alla fine tale compenso finisce per divenire una ulteriore modalità di tassazione, come tale illegittima, o una sanzione "impropria", posta a carico del contribuente.

In altri termini, l'aggio, rappresentando la remunerazione per l'attività svolta dal concessionario (Equitalia) nel riscuotere i tributi, attiene al rapporto tra l'ente impositore e il concessionario del servizio stesso e non può dunque essere addossato al contribuente, inteso come soggetto estraneo a tale rapporto.

In secondo luogo e in via principale, la Commissione rileva come l'aggio esattoriale, finisca per essere un compenso che viene stabilito dalla normativa italiana a favore di un'impresa italiana, il quale, essendo scollegato da una effettiva prestazione resa, costituisce, in ultima analisi, un aiuto di Stato che si pone in contrasto con l'art. 107 del Trattato di funzionamento dell'Unione Europea il quale stabilisce che sono incompatibili con il mercato comune gli aiuti concessi dagli Stati sotto qualsiasi forma, che, favorendo alcune imprese, falsino o minaccino di falsare la concorrenza.
Nel concetto di aiuto deve intendersi ricompreso qualsiasi vantaggio concesso a favore di alcuni soggetti d'impresa ossia in maniera selettiva senza una reale contropartita o con una contropartita minima e non proporzionata all'effettivo vantaggio ricevuto. Cosa che, nel caso di specie, è pienamente ravvisabile

La normativa interna in sostanza attribuisce ad Equitalia, che è composta da soggetti comunque pubblici, un sussidio statale, cioè un aiuto, facendole conseguire un ingiusto vantaggio economico che è superiore e diverso da quello che conseguirebbe sul mercato o se fosse rapportato comunque ad un'attività effettivamente svolta. In altre parole Equitalia, essendo costituita in forma di società commerciale, non può beneficiare di finanziamenti che possano condizionare la libera concorrenza.
Il pagamento di tale aggio, conclude la Commissione, deve pertanto essere escluso.




giovedì 13 ottobre 2016

La pizza è diventata cool

La pizza è diventata cool


Rispetto a 30 anni fa, tutto il mondo della pizza ha subito una vera e propria metamorfosi. In meglio. Già, perché se prima era un prodotto spesso bistrattato per un mix di improvvisazione e di materie prime scadenti, negli ultimi 20 anni preparazione e qualità sono diventate le parole d’ordine dei pizzaioli. Che sono così riusciti a sdoganarsi dall’etichetta di chef di secondo ordine e a conquistare la stima di cuochi e clienti e l’attenzione di guide, giornali e tv. Anche perché, con l’avvento delle nuove tecnologie applicate ai macchinari, per fare questo mestiere è necessaria una cultura a tutto tondo che sconfina nella scienza: ormai è infatti imprescindibile conoscere gli aspetti tecnici e i processi chimico-fisici che avvengono durante impasto, lievitazione e cottura.
LE ORIGINI DEL CAMBIAMENTO
“La rivoluzione comincia all’inizio degli anni ’90. Il primo passo verso lo sviluppo di un sistema di qualità è il decreto legge n. 351 del 13 aprile 1994 sulle farine: per la prima volta le farine vengono classificate in base al loro contenuto di sali minerali, o meglio delle ceneri dopo avere bruciato la farina”, spiega Enzo Coccia, titolare di una delle più famose pizzerie di Napoli, La Notizia, insegnante di allievi pizzaioli alla Città della Scienza e Città del gusto del Gambero Rosso, nonché fondatore dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani con cui si è impegnato per la registrazione del marchio comunitario Stg.
“La classificazione delle farine in tipo 00, tipo 0, tipo 1, tipo 2 e farina integrale ha permesso di creare miscele standardizzate di livello più alto. In passato, il pizzaiolo prendeva una manciata di farine forti e di farine deboli e, a occhio, creava un impasto elastico e resistente. Con l’introduzione delle miscele prodotte direttamente dal mulino la panificazione della pizza diventa più scientifica”, aggiunge. E ovviamente la produzione di miscele sempre più pregiate ha aperto nuovi orizzonti per la creazione dell’impasto. “Per quanto riguarda la pizza al metro, il vero salto di qualità è stato possibile grazie alla ricerca attuata dai mulini che, dopo il decreto legge del 1994, hanno ampliato nel tempo la gamma di farine, nonché agli sforzi di noi pizzaioli impegnati a creare impasti sempre più leggeri”, sottolinea Pasquale Moro, titolare della Casa della pizza a Robecco sul Naviglio (MI) e primo classificato ex aequo nella sezione Pizza in Pala insieme a Tony Gemignani (USA) ai Campionati Mondiali della Pizza 2016. La seconda fase di svolta è legata alla scelta di salvaguardare la vera pizza napoletana. Siamo nel 1995: ricerca dopo ricerca, nel 2004 viene presentato il disciplinare che garantisce alla pizza napoletana di fregiarsi del marchio Specialità Tradizionale Garantita, Stg. “È alla fine degli anni ‘90 che prende piede l’idea di pizza di qualità, parallelamente allo sviluppo del movimento Slow Food e del gruppo del Gambero Rosso”.
Un ruolo determinante lo hanno avuto anche festival e kermesse. In particolare una: “Nel 1997 nasce Pizzafest, appuntamento annuale che dal 2004 diventa pure evento internazionale. La manifestazione segna uno spartiacque: è qui che si iniziano a proporre pizze di alta qualità con prodotti eccellenti, dal pomodoro alla mozzarella passando per l’olio”, puntualizza Coccia. Oltre a Enzo Coccia, pionieri dell’innovazione nel segno dell’eccellenza sono stati il veneto Simone Padoan e il romano Gabriele Bonci. Senza scordare il napoletano Gino Sorbillo, titolare della pizzeria “Gino Sorbillo” tra le più famose e apprezzate del centro storico, fondatore della Casa della Pizza, un luogo di incontri e dibattiti sul piatto napoletano più famoso e amato al mondo per addetti ai lavori ed appassionati, da sempre in prima linea nella “battaglia” per ottenere dall’Unione Europea il marchio Stg. “Rispetto a 30 anni fa, la pizza è migliorata sia in termini di impatto sociale, sia a livello di qualità. Merito anche delle nuove tecnologie applicate ai macchinari, che agevolano il lavoro del pizzaiolo e lo rendono più preciso”. Non è tutto: pure l‘avvento di internet ha contribuito alla rinascita del settore. “Giornali online, blog, siti dedicati e social media sono stati strumenti utilissimi per la crescita dei pizzaioli, perché ci hanno permesso di studiare, di scambiarci informazioni e di favorire l’interesse per la ricerca e per l’approfondimento”, sottolinea Sorbillo.
LO SCENARIO ATTUALE
Rispetto a trent’anni fa oggi non c’è solo più qualità, ma anche più varietà nelle farciture. “La pizza è ormai interpretata come un vassoio, si può guarnire con qualsiasi prodotto e spesso si ispira all’alta cucina, come insegna Simone Padoan”, osserva Pasquale Moro. Così oltre ai gusti classici, in menù compaiono sempre più spesso abbinamenti originali e ingredienti pregiati. Un passo in avanti reso possibile dal dialogo tra pizzaiolo e chef, conquista peraltro abbastanza recente. Come ricorda Gino Sorbillo “tra le fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni’80 molti ristoranti decisero di eliminare la pizza perché veniva percepita come fattore squalificante per il locale. A quell’epoca i rapporti tra chef e pizzaioli erano praticamente inesistenti, a differenza di oggi”. La svolta risale alla prima metà degli anni’90 “quando diventa una tendenza disporre il forno accanto alla cucina, favorendo quindi la contaminazione tra i due reparti”, specifica Alfio Russo, secondo classificato per l’area Pizza Classica agli ultimi campionati mondiali della pizza, anima del Pizz’art di Siracusa. E se le più richieste restano le pizze classiche, ormai è chiaro a tutti che sia meglio diversificare l’offerta. “In termini di numeri, Margherita, Capricciosa e Marinara vanno per la maggiore, ma resta importante offrire nuove proposte per differenziarsi e per rispondere al desiderio di novità dei clienti” puntualizza Federico De Silvestri, primo classificato ai campionati mondiali di pizza 2016 per la migliore pizza senza glutine, titolare della Pizzeria Quattrocento di Marzana (VR), dotata di due laboratori, di cui uno destinato solo alla pizza senza glutine.

Pizzaioli, la rivalsa della categoria.

Pizzaioli, la rivalsa della categoria


Sono passati tredici anni dalla prima copertina della rivista Gambero Rosso dedicata ai pizzaioli. Era il 2003. La coraggiosa cover, in tempi in cui solo i cuochi avevano spazio sui magazine, ha segnato un cambio della percezione dei pizzaioli nell’immaginario collettivo. Da chef di serie B, la categoria si sdogana e si accredita a livello di professionisti stimati e ricercati. È solo l’inizio: nel 2005 le pizzerie vengono inserite nella guida del Gambero Rosso Ristoranti d’Italia e nel 2009 arriva la consacrazione internazionale con la citazione (che non significa la stella, attenzione!) nella guida Michelin de La Notizia di Enzo Coccia. Da allora l’ascesa della categoria non conosce sosta.

Le catene Due parole vanno spese poi sul fenomeno delle catene di pizzerie, nate quasi 30 anni fa. Pioniera in Italia è stata Rosso Pomodoro. Dopo il primo ristorante aperto a Napoli, nel quartiere di Mergellina, ha dato vita in pochi anni a oltre cento locali nello Stivale e nel mondo. In menù ci sono ovviamente le pizze, ma anche tante ricette tipiche, primi, secondi, fritti, sfizi, e dolci tradizionali. L’ultima apertura è avvenuta a New York. “Le catene si sono sviluppate sull’onda del movimento di rinnovamento della pizza iniziato negli anni ‘90”.
È tempo di…

PIZZA FRITTA
 Nata nella Napoli della fine della seconda guerra mondiale, la pizza fritta è un piatto tradizionale della cucina di strada. Un alimento povero che si mangiava in piedi, camminando, e che si comprava alle bancarelle ambulanti, ai banchi dotati di bruciatori, all’ingresso dei forni o direttamente nelle case private a livello della strada. Oggi le friggitorie in strada sono scomparse, ma la pizza fritta sta tornando di moda. Un segnale? Poco prima dell’estate Enzo Coccia ha inaugurato a Napoli, a pochi passi dalla sua storica pizzeria, la nuova ‘O sfizio d’à Notizia e Gino Sorbillo ha aperto a Milano l’Antica Pizza Fritta da Zia Esterina a due passi da Luini, il re dei panzerotti milanesi.
PIZZA SENZA GLUTINE L’esigenza di rispondere ai bisogni dei clienti intolleranti al glutine ha iniziato a essere percepita una decina di anni fa. “Ma solo dopo il 2010 la pizza senza glutine è entrata nella nostra cultura. Oggi è un fenomeno di costume che sconfina nella moda e che rappresenta sicuramente un’ottima fonte di business” .

mercoledì 12 ottobre 2016

Omesso versamento IVA.


Omesso versamento IVA

L’innalzamento delle soglie di punibilità dei reati tributari rappresenta, com’è noto, una delle più importanti novità del sistema sanzionatorio penale disciplinato dal D.Lgs. 74/2000. Tra i reati oggetto di tale modifica figura anche la fattispecie di omesso versamento dell’Iva che, appare doveroso ricordare, nella previgente versione si realizzava nel momento in cui l’ammontare dovuto e non versato avesse superato i € 50.000 per ciascun periodo d’imposta.
In seguito all’entrata in vigore del D.Lgs. 158/15 avvenuta il 22.10.2015, il Legislatore, nell’obiettivo di colpire le condotte che fossero particolarmente lesive degli interessi erariali, ha deciso di ridurre notevolmente l’area di rilevanza penale per tutte quelle condotte che non manifestino una certa gravità.
Per quanto riguarda il reato di omesso versamento dell’Iva, la soglia oltre la quale la condotta diviene penalmente rilevante è stata elevata a € 250.000, con l’inevitabile conseguenza di notevoli ricadute sui procedimenti ancora in corso.
Com’era prevedibile, con l’ampliamento delle condotte irrilevanti sotto il profilo penale e l’applicazione del principio del favor rei, sono state pronunciate le prime sentenze assolutorie in tutti quei processi pendenti relativi a omessi versamenti, con una soglia inferiore a quella di nuova introduzione.
Le sentenze n. 46525 e n. 49586 emanate dalla Corte di Cassazione e pubblicate rispettivamente in data 24.11.2015 e 16.12.2015, rappresentano la più recente espressione del recepimento delle nuove disposizioni.
In entrambi i giudizi, la Suprema Corte è stata chiamata a decidere sulla presunta violazione dell’art. 10-ter del D.Lgs 74/2000 che punisce con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque ometta di versare, entro il termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a € 250.000 per ciascun periodo d’imposta
In particolare, con la sent. n. 46525/2015 la Corte di Cassazione ha avuto modo di offrire interessanti spunti di riflessione circa l’impatto processuale che la novella legislativa è in grado di spiegare sui procedimenti in attesa di definizione.
Nel caso in esame, la Corte, una volta rilevato che l’ammontare per il quale il versamento è stato omesso risultava inferiore a quello previsto successivamente all’entrata dei nuovi parametri di riferimento, ha annullato senza rinvio la sentenza gravata per sopravvenuta insussistenza del fatto.
A tal uopo, merita di essere evidenziata quella parte di decisione in cui i giudici hanno motivato la scelta della suddetta formula assolutoria, precisando che la formulazione “perché il fatto non è previsto più come reato” debba essere adottata allorquando “il fatto non corrisponda ad una fattispecie incriminatrice in ragione o di un’assenza di previsione normativa o di una successiva abrogazione della norma o di intervenuta dichiarazione d’incostituzionalità”. Nel caso di specie, invece, ci si è trovati di fronte all’assenza di un elemento costitutivo del reato e, dunque, tra le ipotesi in cui “il fatto non sussiste”.
Con la sentenza n. 49586/2015 la Suprema Corte ha confermato il proprio orientamento interpretativo.
La vicenda, in questo caso, trae origine dall’impugnazione proposta da parte del Pubblico Ministero avverso la decisione in cui il Giudice per le indagini preliminari aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato per il reato di omesso versamento dell’IVA, perché il fatto non sussiste. A dire dell’accusa, il provvedimento sarebbe stato viziato sia da abnormità, poiché emesso dopo l’opposizione al decreto penale di condanna da parte dell’imputato, sia da erroneità per aver ritenuto applicabile al caso di specie la sentenza n. 80/2014 Cort. Cost. con cui la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10-ter D.Lgs. 74/2000 nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi fino al 17.09.2011, puniva l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto per importi non superiori ad € 103.291,38 per ciascun periodo d’imposta.
I giudici di Cassazione, pur ritenendo legittime le argomentazioni addotte dalla Pubblica Accusa circa l’abnormità del provvedimento e l’inapplicabilità al caso di specie della sentenza della Corte Costituzionale, hanno evidenziando che “nelle more del presente giudizio, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter è stato modificato dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 8, comma 1, in vigore dal 22/10/2015, il quale ha elevato la soglia di punibilità ad Euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”.
La Corte ha quindi concluso sostenendo che “la nuova formulazione della norma che si assume violata, più favorevole al reo, deve trovare pertanto applicazione nella fattispecie in esame, con la conseguenza che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste”.

Risultati delle indagini bancarie rilevanti per la soglia di punibilità.


Risultati delle indagini bancarie 
rilevanti per la soglia di punibilità

Spetta al giudice penale calcolare l’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può anche sovrapporsi a quella effettuata nel corso dell’accertamento tributario.
Per determinare il superamento della soglia di punibilità e la sussistenza del dolo specifico di evasione nel reato di omessa dichiarazione, il giudice penale può avvalersi dei risultati delle indagini bancarie effettuate in sede amministrativa, a condizione che proceda ad autonoma verifica di tali dati indiziari e di altri elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa.
Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza n. 39789 del 26 settembre 2016.

I fatti
L’amministratore di una Snc è stato imputato, in concorso con altri, del reato di cui all’articolo 5 del Dlgs 74/2000, per avere omesso la dichiarazione Iva negli anni 2002, 2003 e 2004.
Il tribunale di Roma, dichiarata l’estinzione per prescrizione del reato contestato per i primi due anni, condannava l’uomo per l’ultima annualità.
L’imputato ha appellato la pronuncia, lamentando che il giudice aveva calcolato l’evasione sulla base di un volume d’affari “presunto e non effettivo”, tratto dai rapporti bancari, senza considerazione dei costi sostenuti dalla società.
La Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rideterminava la pena, riducendola.
L’amministratore ha, allora, proposto ricorso per cassazione, deducendo:
  • vizio di motivazione, in relazione alla mancanza di una rielaborazione critica delle prove
  • violazione di legge in ordine alla sussistenza del dolo specifico di evasione.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, precisando che “ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione ai fini di evasione dell’imposta sui redditi (art. 5, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), spetta esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario…”.

Osservazioni
I giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi sulla quantificazione dell’Iva evasa e sulla sussistenza del dolo di evasione, in presenza della regolarizzazione della posizione fiscale successiva alla difficile crisi economica della società, che aveva costretto l’imputato a ritardare l’adempimento per evitare il fallimento.

Con riferimento alla valutazione del superamento della soglia di punibilità prevista dall’articolo 5 del Dlgs 74/2000, la Cassazione ha affermato che è rimesso al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa. Quest’ultimo deve essere determinato sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, può sovrapporsi e anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Cassazione 38684/2014). Infatti, proprio per l’autonomia dei due processi (penale e tributario) non è configurabile alcuna pregiudiziale (Cassazione 36396/2011).

Il giudice penale, quindi, può sì determinare l’ammontare dell’imposta evasa facendo ricorso alle risultanze delle indagini bancarie svolte nella fase dell’accertamento tributario, ma deve procedere ad autonoma verifica di tali dati indiziari e di ulteriori elementi di riscontro, acquisiti anche “aliunde”, che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa (Cassazione 15899/2016).

Nella fattispecie al suo esame, la Cassazione, sotto il profilo della correttezza dei principi di diritto applicati dalla Corte territoriale, ha evidenziato che l’imposta evasa era stata determinata non già solo sulla base di accertamenti bancari, bensì anche sulla base delle fatture emesse nel 2004. Quanto ai “costi in nero”, a prescindere dal rilievo che il ricorrente non aveva indicato il loro eventuale ammontare, la Cassazione ha ritenuto non detraibili quelli dei quali non poteva essere verificata la natura e l’inerenza all’attività d’impresa e ha considerato legittima la determinazione dell’imposta evasa operata tenendo conto solo dei ricavi aziendali, in assenza di ulteriori elementi che potevano far ritenere esistenti i relativi costi.

Con riferimento all’elemento soggettivo del delitto di omessa dichiarazione (articolo 5, Dlgs 74/2000), poi, i giudici di legittimità hanno ribadito (Cassazione n. 18936/2016) che la prova del dolo specifico di evasione poteva essere desunta sia dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente sia dalla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta. Entrambe dimostrate, tra l’altro, dal rinvenimento dei modelli di dichiarazione predisposti, ma non presentati. L’amministratore, infine, non poteva escludere la propria responsabilità invocando l’efficacia scusante della crisi di liquidità alla scadenza del termine fissato per il pagamento, poiché non aveva dimostrato che erano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo (Cassazione 2614/2014 e 8352/2015). E neppure poteva far valere il versamento spontaneo dell’imposta evasa, effettuato successivamente alla presentazione della dichiarazione dei redditi, poiché, per integrare la fattispecie tipica prevista dalla norma incriminatrice, l’evasione, non essendo elemento costitutivo del reato, doveva solo rappresentare la finalità della condotta dell’amministratore (Cassazione 39359/2008).

In conclusione, la Cassazione ha affermato che il versamento spontaneo dell’imposta evasa, effettuato successivamente alla presentazione della dichiarazione dei redditi, non influiva né sulla determinazione dell’imposta né sul superamento della soglia di punibilità (Cassazione 656/2011) e nemmeno era idoneo a escludere la sussistenza del dolo di evasione.
Ha precisato, inoltre, che tale adempimento produceva effetti limitati a fini attenuanti (articolo 13-bis, Dlgs 74/2000, ante Dlgs 158/2015) ovvero estintivi della punibilità, ma solo se ne veniva fornita prova. Prova che, nella fattispecie, non risultava né dalla sentenza impugnata né dallo stesso ricorso.

lunedì 10 ottobre 2016

Stangate ai Ristoranti, Boom di Controlli e Controllori.


STANGATE AI RISTORANTI, BOOM DI CONTROLLI E CONTROLLORI.

Aumentano i controlli e aumentano le multe, i sequestri e le preoccupazioni dei clienti. 
E’ tutto direttamente proporzionale, in Italia, basta andare a leggere le cifre ufficiali: alla voce ‘Igiene e sicurezza nei ristoranti’, di certo non possiamo considerarci a cinque stelle. 
Numeri importanti, che parlano da soli, confermati da un numero qualificato di enti: Carabinieri, polizia municipale, Guardia di finanza, Asl, ispettorato del lavoro. E non finisce qui. Cinque ministeri si occupano nella penisola di sicurezza alimentare e nei locali pubblici, e c’è chi in questa abbondanza di controllori vede solo una gran confusione e un abbassamento dello standard qualitativo.

L’esempio britannico
Oltremanica, cinque anni fa, hanno provato a migliorare la qualità dei ristoranti e a esorcizzare la paura dei controlli: una vera e propria pagella, messa in rete dalla Food standard agency ed esposta dal locale all’ingresso. La pratica si è diffusa in Inghilterra, Scozia, Nord Irlanda e Galles, dove dal 2013 è diventata obbligatoria. 
Il suo scopo è semplice: in questo modo tutti conoscono il livello di igiene e sicurezza del luogo in cui stanno per mangiare e i gestori si regolano sulla base dei risultati ottenuti per provare a migliorare quel voto pubblico e consultabile da chiunque. L’organo nazionale preposto, che è uno solo, si occupa di dare i voti, con la collaborazione delle autorità locali. E i numeri delle infrazioni sono calati. 
Ecco, in Italia, c’è tutt’altro trend: le pagelle pubbliche sono per ora solo quelle, senza alcuna oggettiva qualificazione, dei siti internet di valutazione della bontà del locale. Ma nonostante questo, le ispezioni delle autorità preposte non calano. Anzi, si moltiplicano.
Cinque ministeri, sette tra Asl e organismi vari. Difficile in Europa trovare un simile esercito di controllori, e le oltre 100mila ispezioni svolte nel 2014 lo testimoniano. Ancora più complesso provare a quantificare il numero di persone che ci lavorano, tra forze dell’ordine e “civili” (che al momento dell’ispezione assumono funzioni di polizia giudiziaria), ma a scorrere il numero degli uffici preposti potrebbero essere nell’ordine delle decine di migliaia. Un esempio: il ministero della Sanità, il padre di tutti i controlli, ha 3 organismi a livello centrale (dipartimento alimenti e nutrizione, istituto superiore della sanità, comando centrale dei Nas) e 4 a livello periferico (posti di ispezione frontaliera, uffici sanità marittima e aerea, uffici veterinari, Nas locali) per sovrintendere all’igiene degli alimenti e dei locali. Così è anche per Finanze, Risorse agricole, Industria, Lavoro: nell’ordine, si occupano coi loro uffici locali di regolarità fiscale, qualità degli alimenti, autorizzazioni commerciali, contratti di lavoro. E non è finita. In qualche modo afferenti ai ministeri, ma non direttamente da questi dipendenti ci sono altri organismi, tutti impegnati sul territorio: le Asl, il servizio di igiene degli alimenti, i servizi veterinari e quelli di igiene ambientale, l’istituto zooprofilattico, le varie Arpa, i presidi multizonali di prevenzione.
Gli spauracchi
Non si occupano solo di ristoranti, bar e mense, ovviamente, questi enti (16 in tutto quelli che agiscono sul territorio), ma di alimenti in senso lato. E tutti, in modo diverso, possono concorrere al controllo dell’igiene nei ristoranti, alla valutazione e all’eventuale sanzione di un locale. Gli spauracchi dei ristoratori sono però i Nas (il nucleo antisofisticazioni dei carabinieri, preparati in modo specifico su igiene e profilassi degli alimenti), gli ispettori delle aziende sanitarie locali, quelli dell’Ispettorato del lavoro, gli uomini della Guardia di finanza. Arrivano tutti in borghese, ovviamente senza preavviso, e le loro competenze sono diverse. E se nel caso di carabinieri e fiamme gialle le sanzioni possono essere elevate immediatamente, anche quelle penali, negli altri si può procedere direttamente solo per via amministrativa.

Le proteste.
La più eclatante risale allo scorso anno, quando un locale della provincia di Udine per un giorno ha praticamente offerto il pranzo ai clienti, in segno di protesta contro le 17 visite tra ispettorato del lavoro, Finanza, Nas e Asl in poco più di sei mesi di attività. È un ristorante in territorio di Moimacco, in provincia di Udine, i cui gestori che oltre al successo tra la clientela hanno dovuto registrare anche, nei primi 190 giorni di apertura, un’ispezione ogni undici dì, con multe fino a 18mila euro. E così, in una calda giornata di luglio, hanno offerto il menu a un euro. Ma non sono gli unici gestori a protestare, anche se nessuno si è mai esposto così tanto. Diversi sono i ristoratori che nei vari forum si lamentano di aver ricevuto a stretto giro di posta Nas, Asl e Finanza, spesso senza che nessuno riscontrasse illegalità, e tanti si chiedono il senso di un numero così alto di controllori. E in Rete sono presenti da tempo i vademecum per presentarsi puliti al momento della temuta ispezione.

Le multe
Oltre 6 milioni è stato nel 2014 il valore economico delle sanzioni, rimanendo ai soli Nas, con 8.460 multe elevate, 5.058 denunciati e un arresto. Una cifra in costante aumento, così come quella delle irregolarità: oltre 32mila su 105mila ispezioni totali (tra carabinieri e uffici ispettivi delle Asl), considerando sia la ristorazione collettiva che quella pubblica. Sugli oltre 450 mila locali censiti dalle Asl, è un numero preoccupante.



Segnalazioni nella Centrale Rischi: cosa c'è da sapere


Segnalazioni nella Centrale Rischi: cosa c'è da sapere

E come cancellare le segnalazioni negative illegittime


In Italia il gestore più utilizzato da banche e finanziarie per verificare il merito creditizio di società e consumatori è la società CRIF S.p.A (Centrale Rischi Finanziari), un sistema di informazioni creditizie che raccoglie e gestisce i dati creditizi onde poter verificare la presenza di segnalazioni di tipo positivo e/o negativo forniti direttamente
dagli Enti finanziatori partecipanti, i quali nella concessione di un finanziamento in favore di un proprio cliente, deve contestualmente segnalare il nominativo ed i dati afferenti l'operazione.
Attraverso la consultazione della Crif è possibile, per gli intermediari collocati sul mercato dell'accesso al credito, ottenere un quadro finanziario dei soggetti censiti (siano essi persone fisiche quanto giuridiche), al fine di valutarne l'opportunità di erogazione di nuovo credito.

Sostanzialmente ciò che viene verificato è il c.d. credit scoring, ossia attraverso un metodo automatico e statistico si analizza il rischio creditizio di ciascun soggetto esaminato delineandone un indice di solvibilità, affidabilità e puntualità nei pagamenti.

Abbiamo già accennato che le segnalazioni possono essere positive o negative.
Le segnalazioni di tipo positivo indicano una certa regolarità e puntualità nel pagamento dei ratei previsti dai contratti di mutui, prestiti, carte revolving, fidi, ecc…
Le segnalazioni di tipo negativo, invece, attestano le morosità e, nello specifico il numero di ritardi prodotti ed il tipo di stato segnalato che può caratterizzarsi in base ad un range di gravità che varia a seconda del protrarsi del numero di rate non pagate.

La questione che qui si solleva e, dalla quale scaturisce un apprezzabile spunto di riflessione, è la seguente: in un mercato finanziario in profonda crisi come quello attuale l'accesso al credito è diventato in alcuni casi difficoltoso per società e consumatori, attesa la presenza di ritardi segnalati in Crif, che etichettano quel debitore inadempiente come "cattivo pagatore".
Ma è veramente tutto come sembra? La segnalazione negativa è sempre causata da negligenza del debitore?
Analizziamo la questione.
E' facile rendersi conto che la problematica più disagevole è afferente la sfera delle segnalazioni negative, ossia quelle che certificano le insolvenze di obbligati, coobbligati e garanti in un rapporto di credito ben definito nelle banche dati private quali la Crif.
Ottenere una visura Crif onde poter verificare la propria situazione finanziaria è molto semplice, poiché è sufficiente inoltrare una istanza specifica al gestore denominata "accesso dati Eurisc".
Ciò che si otterrà sarà un prospetto ben chiaro delle segnalazioni presenti per quel determinato soggetto: dati del richiedente, istituto di credito segnalante, tipologia di credito (finanziamento, prestito, personale, mutuo, ecc…), numero di rate scadute e non pagate, stato segnalato (Incaglio, Sofferenza, ristrutturazione del credito, ecc…).

La visura Crif, inoltre, contiene una guida alla lettura dei dati creditizi registrati, per cui è facile reperire informazioni circa il significato delle varie voci che caratterizzano ogni rapporto segnalato.
Nel dettaglio, vengono spiegati quali sono i tempi di permanenza delle segnalazioni negative, i quali variano in base al numero di ritardi registrati, dalla avvenuta (o non avvenuta) regolarizzazione del debito pregresso, nonché quelli relativi i rapporti di credito non estinti regolarmente.

E' facilmente intuibile quanto la nota dolente per ogni c.d. cattivo pagatore, sia appunto la consapevolezza che il proprio stato di debitore inadempiente sia destinato ad essere visibile per un determinato arco temporale più o meno ben definito (non è nemmeno sempre così), il quale alle volte può essere molto lungo ed in costanza del quale viene compromessa la possibilità di accedere a nuovo credito.
Tale circostanza immaginiamo quanto possa essere soprattutto per le imprese commerciali un vero disagio.
Che ci siano dei tempi di permanenza, i quali fungono da monito per incentivare chi ha contratto un debito ad onorarlo con precisione e regolarità è pacifico.
Ma appare doveroso fare delle precisazioni di sorta.
Il preavviso di segnalazione
Non è azzardato sostenere che moltissime (se non la maggioranza) delle segnalazioni pregiudizievoli registrate in Crif sono illegittime e vanno cancellate.
Tale censura rimette in discussione i tempi di permanenza di cui abbiamo accennato sopra, che secondo quanto genericamente asserito sembrerebbero ineccepibili ed indiscutibili.
Nello specifico, al fine di poter confutare siffatta errata convinzione, occorre sondare la normativa in materia, per ricavarne prontamente una nuova interpretazione ed applicazione della tematica relativa alle segnalazioni in Crif, spesso fin troppo incontrollata e scaturente anche solo da un mero ritardo per poche decine di euro.
La risposta della legge è da reperire in una attenta lettura degli artt. 125, comma 3°, T.U.B. (Testo Unico Bancario) e 4 comma 7 del "Codice di Deontologia e di Buona condotta per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in tema di credito al consumo, affidabilità e puntualità nei pagamenti".
Il primo articolo disciplina che "I finanziatori informano preventivamente il consumatore la prima volta che segnalano a una banca dati le informazioni negative previste dalla relativa disciplina. L'informativa e' resa unitamente all'invio di solleciti, altre comunicazioni, o in via autonoma".
Il secondo articolo disciplina che "Al verificarsi di ritardi nei pagamenti, il partecipante, unitamente all'invio di solleciti o di altre comunicazioni, avverte l'interessato circa l'imminente registrazione dei dati in uno o più sistemi di informazioni creditizie. I dati relativi al primo ritardo di cui la comma 6 possono essere resi accessibili ai partecipanti solo decorsi almeno 15 giorni dalla spedizione del preavviso all'interessato".

La ratio della normativa è quella di garantire massima trasparenza e correttezza contrattuale verso il debitore il quale, nel modo adatto e tempestivamente preavvisato, viene posto nelle condizioni di poter regolarizzare il proprio debito, evitando al contempo la segnalazione della morosità che permane per almeno un anno.

Vero è che gli intermediari bancari e finanziari devono necessariamente poter usufruire di uno strumento che garantisca il monitoraggio costante dell'affidabilità dei debitori, ma di converso, è anche vero che i soggetti finanziati hanno necessità che le registrazioni delle segnalazioni a proprio carico siano giustificate e legittimate dall'osservanza di un iter procedurale disciplinato dalla legge, onde consentire agli stessi la possibilità di porre rimedio ad uno stato di insolvenza a volte meramente temporaneo e transitorio, al fine di salvaguardare la propria reputazione creditizia.
Contemperando gli interessi delle parti (intermediario e debitore) vi è quindi l'obbligo di preavviso di segnalazione che, quale atto recettizio, deve essere non solo inviato, ma necessita che entri nella sfera di conoscibilità del destinatario con certezza di avvenuta ricezione, secondo quanto enunciato ex artt. 1334 e 1335 del codice civile (quindi deve essere inviata una raccomandata A.R. con ricevuta di ritorno o mezzo equipollente).
Conferendo il giusto rilievo agli interessi posti in gioco, il preavviso di segnalazione è un obbligo che incombe in capo agli intermediari, con i tempi e le forme su enucleate.
La prassi invalsa, invece, tra gli istituti di credito è tutt'altro che aderente al dettato normativo, per cui ne discende che una percentuale elevatissima di segnalazioni in Crif (o comunque nelle banche dati di tale tipologia) siano illegittime e debbano essere cancellate senza indugio dagli intermediari segnalanti anche prima del decorso dei tempi di permanenza contemplati nelle visure Crif (e questo anche a prescindere dallo stato di avvenuta regolarizzazione della morosità).
Alla luce delle riflessioni su emerse, si desume che qualora si apprenda dell'esistenza di segnalazioni negative, afferenti i propri rapporti di credito, è necessario verificare se sia avvenuta la ricezione del preavviso di segnalazione, in carenza del quale è possibile attivare una procedura ad hoc atta ad eccepire l'illegittimità del modus operandi dell'istituto segnalante ed ottenere, in tempi rapidi, la cancellazione del dato negativo illegittimo, alla quale gli intermediari non possono sottrarsi perché ciò comporterebbe una violazione di legge.




Equitalia rottamazione cartelle.


EQUITALIA, SPUNTA LA ROTTAMAZIONE DELLE CARTELLE ESATTORIALI


ROMA - Le cifre in ballo sono colossali. 
Ma alla fine, dalla rottamazione delle cartelle di Equitalia, una delle misure che potrebbero entrare nella prossima legge di Stabilità, l'incasso finale potrebbe essere solo di un miliardo di euro. 
A spiegarlo è la relazione illustrativa alle norme che sono sul tavolo di Palazzo Chigi e del Tesoro in vista della predisposizione della manovra che sarà approvata questo fine settimana e che dovrebbe essere presentata alle Camere il prossimo 20 ottobre. 
Il condizionale è d'obbligo, perché ieri l'Upb, l'Ufficio Parlamentare di bilancio che deve validare le stime del documento programmatico, ha fatto sapere che i tempi potrebbero essere più lunghi.
Tornando alla proposta della rottamazione delle cartelle, la relazione spiega che il «magazzino» di Equitalia che comprende tutti i carichi affidati all'agente della riscossione dal primo gennaio del 2000 fino al 31 dicembre del 2015, ammonta a 1.058 miliardi di euro. 
In pratica una somma pari a circa la metà del debito pubblico italiano. 
Il 20,5% di questi carichi, tuttavia, è già stato annullato dagli enti creditori. 
Dei restanti 841 miliardi di euro, un terzo vengono ritenuti di difficile riscossione per vari motivi: o perché i debitori del Fisco sono falliti, o perché sono morti, o ancora perché sono nullatenenti. 
Per altri 314 miliardi poi, Equitalia ha già tentato, invano, delle azioni esecutive. 
Dunque, al netto di altri 25 miliardi di euro di rate per riscossioni dilazionate e di 81 miliardi di riscosso, il «magazzino residuo» si riduce a 85 miliardi di euro, di cui 34 miliardi non sono lavorabili da Equitalia perché inferiori ai limiti legali per le azioni cautelari ed esecutive. 
La rottamazione delle cartelle, insomma, sarebbe applicabile a soli 51 miliardi di euro, il 5% del totale lordo, comprensivo cioè di interessi e sanzioni.Insomma, alla fine, da tutta questa mole di cartelle Equitalia, ragionevolmente si potrebbe pensare di incassare subito un miliardo di euro. La stessa cifra della rottamazione del 2002, quando la base di partenza era di 49 miliardi.